Entrare alla Tommasi Arte Contemporanea è, prima di tutto, fare esperienza dello spazio espositivo che, dalla metà del secolo scorso, è divenuto lo spazio espositivo tipico nell’immaginario collettivo: il cosiddetto white cube. Se non fosse per la forma, un parallelepipedo, essa sarebbe un classico “cubo bianco”, nel quale le opere di Chiara Dynys (artista mantovana, operante a Milano, nota internazionalmente) trovano una loro perfetta collocazione.
Da più di trent’anni Chiara Dynys sviluppa una ricerca artistica tutta intesa ad individuare e portare alla luce (elemento che l’artista ama particolarmente e che è uno dei suoi “materiali” preferiti) il senso dell’anomalia e dello scarto, inteso -quest’ultimo- non come residuo inutile, ma come differenza, spostamento dalla norma. In sala sono esposte sei opere recenti (prodotte tra il 2018 e il 2019): quattro della serie “look at you”. Esse sono costituite da teche di vetro appese alla parete il cui fondo, rivestito di un amalgama d’argento specchiante, riflette il monocromo che l’artista ha dipinto sul lato ad esso parallelo (quello più vicino allo spettatore e più lontano dalla parete); il monocromo, che ricopre solo una piccola parte della superficie su cui è dipinto, tuttavia, non è direttamente visibile perché steso, in realtà, sul retro di un sottile specchio: quel che si vede sullo sfondo è, dunque, l’immagine di quel che c’è in primo piano, ma nascosto dal sottile strato riflettente. Riuscendo a posizionarsi in perfetta corrispondenza con l’opera, lo spettatore vedrebbe solo la propria immagine riflessa, ma basterebbe un lieve spostamento (lo scarto appunto) per scorgere il riflesso della porzione dipinta. Questo effetto crea una piacevole sensazione, tutta giocata sul colore, sul riflesso (ecco la luce) e lo sfasamento dei piani (ancora, lo scarto).
“Sunrises Only Sunrises” è invece un dittico che, se è molto simile alle precedenti opere, strutturalmente se ne differenzia per alcuni accorgimenti. Queste due grandi teche in vetro, esposte affiancate sulla parete, presentano sul lato più esterno, cioè la facciata rivolta allo spettatore, dei rettangoli specchianti che vanno rimpicciolendosi dall’esterno verso l’interno; sullo sfondo, anch’esso specchiante, ed in piena corrispondenza dei suddetti rettangoli appaiono dei monocromi colorati (specularmente identici in entrambe le parti del dittico), alcuni dei quali sono inoltre illuminati da luci LED: in un’alternanza luminosa che fa apparire i colori ora brillanti ora cupi, lo spettatore è reso consapevole della magia a cui la luce può dare vita sui materiali.
Anche qui, le trappole visive poste in essere dalla Dynys si dimostrano intriganti e coinvolgenti.
L’ultima opera, direi la principale sia per impatto visivo sia perché dà il titolo all’intera mostra, ricorda l’apparenza di un grande televisore con tubo catodico dai colori chiassosi: una serie di cornici concentriche recano, ognuna, un colore fluorescente dello spettro solare e, rimpicciolendosi progressivamente a mo’ di piramide a gradoni rovesciata, guidano lo sguardo del fruitore fino all’ultimo piano, uno schermo sul quale scorre in loop un video di cinque minuti, interamente realizzato al computer, che simula l’avanzare infinito e lento in soggettiva dello spettatore in una serie di stanze, una di seguito all’altra, tutte uguali ad eccetto dei colori che riprendono la stessa sequenza delle cornici colorate. L’effetto finale è psichedelico e leggermente ipnotico; sensazione moltiplicata dalla presenza di plexiglas specchiante all’interno delle cornici che consente, adottando una posizione leggermente obliqua, di vedere il video moltiplicato infinite volte. Un sentimento di frustrazione fa da corollario a quest’opera: il continuo progredire in stanze uguali, vuote, alla fine tetre a dispetto della vivace cromia, è un avanzare inane, non c’è nulla oltre la soglia, se non un’altra soglia, poi un’altra ancora… in un attraversamento privo di scopo che non sia, forse, quello di superare un limite per il gusto di farlo, perché, “semplicemente”, si può fare: tipica ansia contemporanea. Il superamento per il superamento. Un oltrepassare che in definitiva nega se stesso, perché è sempre la medesima soglia ad essere sopravvanzata, in attesa di un aurora che fatica a manifestarsi, o -peggio- sempre uguale a se stessa, e di una promessa tecnologica mai compiuta. È l’immagine di un andare avanti senza prospettiva.
Prospettiva. Nel testo che accompagna l’esposizione vengono giustamente richiamati i temi dello specchio, dello sdoppiamento, dell’inganno, insomma della negazione delle certezze percettive, ma a balzare all’occhio in questa disposizione è, anche, una particolare attenzione alla prospettiva. Un aspetto, questo, sottolineato dall’allestimento che oppone “Aurora” a “Sunrises Only Sunrises”: se, osservando la prima, la prospettiva esalta la profondità ed evidenzia il volume e lo spazio che dell’opera è parte integrale, concettualmente e fisicamente, poiché essa si proietta nello spazio fisico della galleria; ruotando di 180° gradi, lo spettatore si trova confrontato con le prospettive convergenti di “Sunrises Only Sunrises”, le quali si sviluppano su una superficie piana e spingono l’occhio a convergere verso l’intervallo che separa le due teche, occupato unicamente dalla parete bianca, e piatta.
Concludendo, in uno spazio asettico e libero da eccessivo rumore visivo, queste opere si trovano a loro agio e il fruitore può leggerle con comodità e comprendere bene alcuni aspetti del lavoro dell’artista che tra l’altro si fa notare per la complessità formale e per la qualità palese con cui confeziona i suoi lavori.
C’è, infine, un ulteriore aspetto che vorrei sottolineare, un effetto probabilmente dovuto ad una fortunata casualità. Le ombre che le teche proiettano sul muro danno vita ad acquietanti e gentili “paesaggi” urbani o cosmici; disegnano evanescenti e nebbiosi profili urbani, prospettive celesti, disegni geometrici somiglianti a delicati progetti architettonici: una mostra nella mostra.
Luca Tommasi Arte Contemporanea, Milano – 14 novembre 2019 ¦ 11 gennaio 2020
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