Dieci anni fa, il 24 aprile, scompariva Giuseppe Panza di Biumo, un uomo la cui collezione d’arte ha segnato una tappa importante del collezionismo artistico contemporaneo, ma che è stata, prima di tutto, un esperimento esistenziale.
Giuseppe Panza ha infatti costruito la Collezione Panza sulla sua personalità, infondendo in essa la sua ansia di ricerca. Una volontà di penetrare gli aspetti della vita in cui l’intuizione viene prima della comprensione che andò definendosi sin dalla primissima giovinezza. Giuseppe Panza si è infatti alimentato e nutrito, per tutta la sua vita, di quella che lui stesso definì la sua “scoperta dell’infinito”, avvenuta, poco più che decenne, durante una vacanza in terra ligure, imbattendosi in una visione paesaggistica: un cielo blu che si stagliava, netto e definitivo, oltre la terra sopra un’antica strada di ciottoli in salita. È questa presenza dell’infinito, di volta in volta declinata nelle diverse forme artistiche che via via andava incontrando nelle sue ricerche e nelle sue peregrinazioni nelle gallerie, che ha preso forma nella collezione.
“La sua collezione è la sua fotografia” conferma la moglie Giovanna Panza; “i concetti che hanno guidato le sue scelte sono gli stessi e sono il filo conduttore dall’inizio alla fine”, prosegue Giuseppina, la figlia che attualmente è la più impegnata dei fratelli nel seguire l’attività della Collezione. “Può piacere o no, ma è veramente una delle poche collezioni nel mondo, che io abbia visto, che ha questo filo conduttore: questo amore per la luce e per il colore e per lo spazio, per la bellezza. È una collezione abbastanza unica. Se vogliamo forse ha collezionato troppe opere di certi artisti, forse talvolta ha esagerato…” sorride Giuseppina, mentre si rivolge alla madre che scuote la testa senza esporsi. Il fatto è che il conte Panza voleva entrare nell’universo degli artisti di cui sentiva viva l’opera; opere che sentiva pulsare dentro la sua anima. Era capace di acquistare intere mostre e decine di quadri dello stesso autore. Tuttavia, come padre, non è mai voluto entrare in modo eccessivo nelle vite dei cinque figli, lasciandoli liberi di fare le loro esperienze, intervenendo -ricorda ancora la moglie Giovanna- quando la “figura paterna era necessaria”. Giuseppina Panza non nasconde il fatto che i figli hanno dovuto condividere il papà con le opere, le quali facevano talvolta “mancare la presenza paterna perché troppo presa dalla collezione e dall’archivio”, d’altra parte l’attività collezionistica -per chi la vive tanto intensamente da farne un’estrinsecazione della propria visione del mondo- è impegnativa e assorbente.
“Quando ha avuto consapevolezza che il papà era un collezionista?” “È difficile da dire, perché noi siamo stati cresciuti in mezzo all’arte e quindi ci rendevamo conto che nostro padre era diverso dagli altri papà e sapevamo, soprattutto, che quello che c’era in giro per casa, gli altri non l’avevano; per cui c’è sempre stato chiaro che nostro padre era un `collezionista`.” Considerazione che si è sempre più chiarita e definita quando sono cominciate le visite di “persone sempre più importanti” e quando “i musei hanno cominciato a manifestare interesse per la sua collezione.”. Tutto questo ha svelato alla famiglia il volto pubblico di Giuseppe Panza. Il rapporto quotidiano con le opere in casa Panza era il rapporto di chi ha degli oggetti in casa, da conservare, ma la cui presenza è un semplice dato di fatto. Giuseppe Panza non spiegava hai figli le opere (in fondo erano lui stesso e un padre non spiega ai figli chi è; piuttosto le spiegava ai loro amici, rammenta Giuseppina), si viveva con esse e ad esse si era esposti: ognuno aveva la possibilità di sentirsi libero nel rapporto con l’arte. C’era un quadro sopra il camino della camera dei coniugi panza, un Mangold rosa con un taglio sotto (Neutral Pink Area, 1966): “cosa vuol dire questo quadro, papà?” “È un tramonto, non vedi…” rispose in quell’occasione il Conte. In fondo un modo per non forzare una strada interpretativa e invitare la figlia a compiere il suo proprio percorso d’avvicinamento.
Le qualità che hanno fatto del Conte Panza un grande collezionista, meticolosità, attenzione, analisi, approfondimento, sono state caratteristiche che Giuseppe impiegava non solo nello studio dell’arte, ma anche negli altri ambiti della vita (“anche nella scelta dei mobili”, ribadisce la moglie). “Era un uomo tutto di un pezzo; un uomo che sapeva quello che faceva. Sempre. Le decisioni che prendeva, le prendeva perché era cosciente di quello che decideva”, dice Giuseppina; “Era un pensatore”, concorda la moglie. Un pensatore dai vasti interessi che riusciva ad approfondire attraverso numerose letture. La storia dell’arte aveva cominciato a studiarla fin da bambino, da autodidatta, ma anche la fisica (“lo affascinava moltissimo” afferma la moglie). Una conoscenza che, nella mentalità del Conte, doveva essere messa al servizio della sua elevazione spirituale in un costante ritirarsi in preghiera e in un continuo contemplare le opere nelle quali vedeva prendere forma la sua idea di infinito, di bellezza. Ad un certo punto, l’insieme delle opere, la collezione, è diventata importante oggettivamente: non era più soltanto il ritratto di un individuo, di un marito e di un padre speciale, ma è diventata un insieme di oggetti significativi nell’ambito specifico della storia dell’arte, accompagnandosi con l’importanza del versante economico.
Il coraggio e la coerenza, o meglio il coraggio della coerenza necessario a seguire e coltivare le proprie profonde attitudini ha premiato Giuseppe Panza non solo davanti mondo, al quale era stato difficile -impossibile agli inizi- spiegare e giustificare le proprie scelte collezionistiche, ma forse, soprattutto, davanti alla sua famiglia d’origine che, ancorata ai pratici valori della borghesia d’inizio Novecento, aveva sempre, se non osteggiato, almeno poco assecondato le inclinazioni intellettuali e spirituali del giovane Giuseppe.
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