Tre le cose rilevanti: l’amorevole compartecipazione dell’artista alle vicende narrate; la profonda serietà del lavoro; la peculiare multiformità delle opere: ci riferiamo a “Reincarnations of shadows” la prima personale italiana dell’artista vietnamita Thao Nguyen Phan (Ho Chi Min City, 1987, dove vive) presentata a Milano (HangarBicocca, a cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli, fino al 14 gennaio 2024).
I temi trattati sono un classico contemporaneo: lo sfruttamento delle risorse naturali; la crisi alimentare; le geografie postcoloniali…
Ci si aspetterebbe una mostra che ponga, dunque, l’impegno politico al centro del fare artistico e ci si aspetterebbe che questo sguardo si trasformi, in qualche modo, in espediente formale che tralascia gli aspetti estetici e materiali delle opere, quasi a non voler sminuire, con un approccio che non disdegni la piacevolezza sensibile, la preponderanza del messaggio che vuole essere veicolato. Ed, invece, mossi i primi passi nell’esposizione, si coglie, già ad un’occhiata impressionistica la poeticità che pervade l’intero corpus esposto.
Si è accolti da una serie di acquerelli con aeree figure geometriche che danno vita a gustosi passaggi visivi e cromatici ispirate ai brise soleil (elementi in cemento traforato che l’architettura modernista del sud-est asiatico sfrutta per schermare dal sole e consentire una migliore areazione). Il registro pittorico della Phan giunge all’astrazione geometrica a partire da una figurazione fanciullesca di scene di immediata quotidianità testimoniata dalla serie di acquerelli Dream of March and August (dal 2018), la cui leggerezza è sottolineata dall’allestimento che li prevede sospesi. L’artista è, tuttavia. soprattutto nota per i suoi video (i quali non sfuggono a certe reminescenze formali presenti nelle opere video di Joan Jonas, l’artista americana, pioniera nella videoarte, di cui è stata sua protegée Rolex tra il 2016 e il 2017); opere formalmente complesse in cui si alternano immagini, moderne e storiche, testi, animazioni e suoni ambientali che costruiscono storie al limitare tra documento e racconto fantastico.
Siamo al cospetto di un’arte tramestante e memoriale, che rovista negli archivi alla ricerca di documenti, d’immagini e di memoria. Lo scavo nel passato, unito alla sensibilità dell’artista, che trasceglie, quali fonti d’ispirazione e materiali di lavoro, modelli letterari (come le “Città invisibili” di Calvino), ma soprattutto storie folcloristiche, fiabe popolari, leggende o racconti orali (che l’artista ritiene “racchiudano un livello più alto di verità”) si muta nei video in parole e in brevi animazioni emergendo come indizio di una diffusa spiritualità. Il folclore, le storie popolari, la testimonianza diretta (tutti elementi con cui lavora l’artista), giuntici dalle lunghe generazioni che ci hanno preceduto, detengono, implicati nella loro propria essenza, una speciale spiritualità originaria che permane in essi anche al mutare delle condizioni che li aveva visti nascere. Delicato come rugiada, questo senso che supera l’immanenza è avvertito dallo spettatore che lo coglie nella particolare delicatezza dei lavori; nella concatenazione dolce delle immagini in movimento accompagnata ad una ricercata componente testuale; nei dipinti formalmente esili ma genuini. Una spiritualità non esplicitamente cercata ma che, originaria e consustanziale, persiste e permea le opere senza che i temi, oggi in voga presso un’opinione pubblica acquietata in un pensiero senza scandalo, riescano a nasconderla. È per questo che ci piacerebbe vedere -lo diciamo senza polemica, ma con sincera curiosità e vero interesse- l’artista alle prese con visioni alternative a quella della vulgata o addirittura nel cimento con domande -ora neglette- che superano gli aspetti sempre contingenti della vita per indagarne significato e apertura alla trascendenza.
Nessuna nostalgia, comunque, alberga nel fare artistico dell’artista vietnamita; anzi, l’arte della Phan guarda con tenacia il presente, fugace ed inafferrabile, (lo testimonia la sollecitudine verso una quotidianità fatta di azioni banali) contemplandolo dall’unico punto che ne possa offrire una visione piena e sensata: il passato (che è ciò che persistentemente esiste, anche se non è più, perché presente alla memoria e vivo alla tradizione). Qui sta la giustificazione di questo lavorìo d’archivio. Un punto di vista che può essere visualizzato, in queste opere, nell’attenzione che l’artista rivolge al Mekong. Il grande corso d’acqua è fiume, immagine ed idea tra le più amate dall’artista; il fluire del fiume-tempo che nutre e collega luoghi e tempi. Ma lo sguardo presente proveniente dal passato si ritrova anche in un’opera tra le più poetiche (insieme con Becoming Alluvium, dal 2019): Voyages de Rhodes, 2014-17, che mi sembra anche incarnare alla perfezione il titolo della personale (sebbene esso derivi da diversa e omonima opera). Una composizione di numerosi acquerelli realizzati sulle pagine di un libro scritto nel XVII secolo dal missionario francese de Rhodes che riportano in vita (come reincarnazioni contemporanee che relazionano il passato all’oggi) le parole del testo stesso; installati perpendicolarmente alla parete e adeguatamente illuminati, questi piccoli lavori finiscono per disegnare un’intricata selva di ombre di patente suggestione.
Infine il connubio tra le tematiche esplicitamente affrontate dall’artista e la carsica soprasensibilità che fluisce dalle opere si ritrova in Untitled (Heads), 2013, scultura polimeterica rotante realizzata con fibra e fronde di juta e oggetti in bronzo, ispirata agli alberi sacri della minoranza Thai che tradizionalmente “appende alle fronde oggetti […] amuleti e ossa”; il lento movimento rotatorio richiama sia gli eventi climatici sia la ciclicità stagionale che, nei suoi ritorni di un medesimo sempre diverso, pacifica e rassicura l’Uomo.
Pirelli HangarBicocca, via Chiese 2, Milano – 14 settembre 2023 ¦ 14 gennaio 2024
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