Superata la subitanea fascinazione per l’ipogeo industriale ove è ospitata la mostra “Frames”, personale del regista e musicista Alberto Nacci (fino al 3 giugno, Museo del design a Milano), dirigetevi a destra, in fondo, accomodatevi e guardate i cortometraggi: è il punto germinale dell’esposizione. I video, in un bianco-e-nero grafico, fumettistico, raccontano storie di musicisti, cantori e danzatori e dei loro strumenti e, a sua volta, la storia che racconta la musica che da questi connubi viene alla luce (e l’espressione è assai adatta, perché è sulla musica che sono pensate le immagini). Ma -mi spingo a dire- vi è qualcosa, in questi film brevi, di ancor più intimo che affiora, rispetto al rapporto amoroso tra corpo e strumento.
È qualcosa che ha a che fare ancora con il corpo, che in prima battuta germoglia entro di esso; e solo una volta che è nato ab imo può -diciamolo ancora- venire alla luce e farsi visibile al mondo. Ciò che Nacci narra è la sapienza corporea, muscolare, insegnata dal continuo, paziente, accanito allenamento quotidiano; sostenuto dalla volontà e dallo spirito di sacrificio. È l’esercizio che conduce alla conoscenza perfetta, quasi simbiotica, dello strumento. (Eccezionali, sotto questo profilo, le immagini delle corde della chitarra vibranti sotto i tocchi di Sergio Arturo Calonego: Dadgag, 2015.)
È, dunque, questa «sofia» del corpo la vera protagonista dei cortometraggi di Alberto Nacci, dai quali sono estrapolati fotogrammi, come nature morte, esposti alle pareti. Un’esaltazione del bianco-e-nero mostrato nelle sue molte potenzialità. In alcune occasioni (Medley, 2014) esso è la bidimensionalità assoluta: contrasti netti di una battaglia tra accecanti bianchi e neri cosmici. In altre prove, all’opposto, chiari e scuri costruiscono la tridimensionalità di mani, arpe o clarinetti (riconoscibili per alcuni dettagli illuminati: Harp e Woodsound, 2020) che fluttuano in un abissale silenzio. Il rapporto chiaro/scuro, poi si complica e si pacifica in altre fotografie dove i sonori bianchi trapassano in cupo nero attraverso l’armonica mediazione dei grigi (Waves, 2021); fino a giungere, formalmente, alla soglia di una rarefatta astrazione lirica di atmosfera quasi à la Miró (Hands, 2016) in cui pochi segmenti luminosi compongono, sullo sfondo di pece, tutta la tensione di un paesaggio che non è né qui né là, ma certamente è da qualche parte (e che solo per accidente è la memoria di un pianoforte).
Nacci intende questa personale come un’occasione per fare il punto del suo percorso più recente (2014-2022); ed è curioso che un artista che fa del tempo, dello svolgersi del tempo, il materiale principe del suo lavoro, abbia scelto come autoanalisi la forma dell’istante sciolto dal moto temporale. Tuttavia è la scelta allestitiva che fa da raccordo a queste due dimensioni: abbinata ad ogni foto c’è la possibilità di visionare il video da cui essa è tratta. Pur rischiando di divenire una sorta di ‘caccia al fotogramma’, questa opzione consente di sperimentare due diverse esperienze: la contemplazione dell’immagine fissa e la visione del flusso di immagini.
Da un lato, quindi, la concentrazione della propria attenzione in un processo, a partire dall’immagine isolata, di un’intima costruzione di rapporti e relazioni compositivi; dall’altro la dilatazione della visione che coglie lo stratificato contenuto narrativo proposto dall’artista. La contiguità delle quali è qui mediata dal fondamentale elemento sonoro, sostegno e chiave decifratrice di storie che lo spettatore è invitato a svelare personalmente.
ADI Design Museum, piazza Compasso d’oro 1, Milano – 3 maggio ¦ 3 giugno 2023
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