Arnaldo Carpanetti: realismo fascista e altre cose. (part.2 di 2) (➭ parte 1)
di Elena Pontiggia
Sempre in questo periodo Carpanetti è nominato direttore della neonata Avanguardia Artistica, un’accademia libera, senza esami d’ammissione, sovvenzionata da Vittorio Emanuele Barbaroux, titolare con Gaspare Gussoni della Galleria Milano, la galleria dei novecentisti. Le sale dell’Avanguardia, in corso Monforte 15, sono frequentate dagli artisti più significativi dell’ultima generazione, come Fontana, Manzù, Birolli, Sassu, Munari, Spilimbergo e Broggini.
L’impegno organizzativo della scuola non distoglie però Carpanetti dall’attività espositiva e in novembre presenta Il ratto delle Sabine, una delle opere più significative, alla II Sindacale Lombarda, che si apre ancora alla Permanente. Nell’opera dà sfogo alla sua vena visionaria, riallacciandosi da un lato all’omonimo dipinto di Pietro da Cortona, di cui riprende il gesto della donna a braccia alzate al centro, dall’altro al groviglio di corpi del Signorelli a San Brizio, mentre la scelta di colmare di figure l’intero spazio, dal primo piano allo sfondo, richiama piuttosto le scene di gruppo di Altdörfer. Come nei Nudi, comunque, anche in quest’opera l’effetto è quello di un piccolo teatro. L’artista non dipinge un frammento di vita, ma una composizione di forme: uomini e donne, coi loro gesti raggelati, recitano come modelli davanti alla tela e si affollano come in un museo di statue, con accenti di un realismo magico e metafisico.
Il ratto delle Sabine vince il prestigioso premio Principe Umberto, assegnato da una giuria presieduta da Wildt e composta da Tosi, Barbieri, Bogliardi e Libero Andreotti. Viva è l’attenzione dei critici verso il giovane marchigiano e tra loro spicca Sironi, secondo cui il quadro “eccita la curiosità e le speranze”. Carpanetti, prosegue, “è un coraggioso. I suoi tentativi nel campo della grande pittura di figura non si ripetono invano, non solo nel senso che ad essi è connesso un reale progresso pittorico e sensibile, ma perché alla sua messianica volontà di vittoria si rivolgono ormai attenzione e consensi”1. È il primo segno di interesse mostrato da Sironi, di cui Carpanetti diventerà un fidato collaboratore. “Tu che mi sei stato vicino[…] tu sai chi sono” gli scriverà il pittore delle Periferie nel 1937, in una lettera in cui peraltro si lamenta delle lamentele dell’amico. 2
All’articolo di Sironi fa eco Margherita Sarfatti che nella Storia della pittura moderna (1930) cita Carpanetti tra i giovani emergenti3. Nonostante questi apprezzamenti l’autore del Bacchus non viene invitato in nessuna delle numerose collettive del “Novecento” che si tengono in Europa a cavallo del decennio, e la sua presenza alla mostra del 1929 rimane senza seguito. Viene invece ammesso alla Biennale di Venezia del 1930 dalla giuria (presieduta sempre da Wildt e formata questa volta da Oppo, Carena, Beppe Ciardi e Maraini) e partecipa al concorso, indetto dal regime nell’ambito della Biennale, per un’opera che abbia come tema “Le origini del Fascismo”.
Pochi artisti avevano raccolto l’invito, e nessuno tra i più significativi. I protagonisti del “Novecento”, come Sironi e Funi, non amavano simili soggetti storico-illustrativi, a differenza di quanto spesso si afferma. Carpanetti invia invece un’opera gigantesca, “Incipit novus ordo”. Come lui stesso ha dichiarato, intende essere un’allegoria dell’ordine portato da Mussolini nel caos del dopoguerra4. In primo piano sono raffigurati i tumulti sociali, mentre alcune figure del popolo additano il futuro Duce. In fondo le Camicie Nere avanzano a ranghi compatti, portando il tricolore che, dice ancora l’artista, molti avevano insultato. Sulla destra, in uno spazio ieratico, appare Mussolini, da solo, e la sua camicia nera contrasta con due figure diversamente trasparenti: un soldato, caduto nella Grande Guerra, e un bambino, offerto al Duce dalla madre. Il primo non è più, ma indica l’avvenire; il secondo non è ancora (un uomo), ma è trasfigurato di luce. L’immagine di Mussolini è resa più solenne dalla prospettiva multipla: gli uomini in primo piano sono visti dall’alto, mentre le camicie nere e il loro capo sono colti in una visione frontale.
“Incipit novus ordo” vince il primo premio del concorso, imponendosi su opere altrettanto celebrative (La prima ondata di Primo Conti col Duce a cavallo; l’adunata oceanica del Fascio di combattimento di Tommaso Cascella) o più drammatiche (La prima ora di Orazio Amato). Né Sironi né Margherita Sarfatti mostrano di apprezzare il lavoro così oleografico di Carpanetti, ma non mancano critici che, pur segnalando i difetti dell’opera, la assolvono5.
Sullo stesso schema di Incipit sono impostate altre tre composizioni, tutte eseguite a cavallo del decennio. La prima è La morte di Francesco Ferrucci, esposta alla Quadriennale di Roma del 1931. Anche qui il protagonista è al centro di uno spazio vuoto ma l’insieme delle figure, diviso dalla retta luminosa della bandiera, è meno manierato che nel Novus ordo. Questa volta, come scrive Margherita Sarfatti, l’artista dipinge più uomini che comparse6.
La seconda è Il miracolo della mula, esposto alla I Mostra d’arte sacra a Padova del 1931. Anche quest’opera beneficia di una composizione semplificata. L’episodio della vita di sant’Antonio, in cui un’asina tenuta a digiuno si inginocchia davanti all’Ostia e non alla biada, appare più risolto, pur nella consueta teatralità dei gesti. Carpanetti, paradossalmente, è meno agiografico quando dipinge vere agiografie. Il suo linguaggio, comunque, è sempre alla ricerca di una grandiosità che poi non sa dominare, ma a cui non rinuncia. Ha ragione Bertocchi, il critico bolognese, che vedendo il Ferrucci alla Quadriennale, commenta: “Chiedere ad un artista di questa specie una pittura più intima e vigilata, un gusto più educato e fine sarebbe come invitare Morandi a dipingere un quadro raffigurante, per esempio, Le nozze di Cana.” E aggiunge: “Carpanetti va accettato com’è. Ogni riserva sulla sua opera è inutile. Essa contiene, ad ogni modo, quel tanto di potenza che basta a giustificarla”7.
Un “realismo fascista” o, per meglio dire, un “realismo magico fascista” segna invece La transvolata atlantica, ispirata alla crociera aerea Italia-Brasile, la drammatica impresa di Italo Balbo, che tra il 17 dicembre 1930 e il 15 gennaio 1931 attraversa l’oceano con una pattuglia di tredici idrovolanti, volando da Orbetello a Rio de Janeiro. È un tema che doveva interessare particolarmente Carpanetti, che in Brasile aveva trascorso la giovinezza. Qui l’intento celebrativo acquista accenti quasi mitici per l’apparizione del Duce in spirito, come un Deus absconditus che nessuno vede ma che vede tutto, ed è la vera anima dell’evento. Visivamente però la composizione è felice per la ripetizione ritmica delle figure e lo schierarsi ordinatamente geometrico, come in un teorema, di aviatori e folla. La cartolina del quadro che si stampò all’epoca ebbe una grande fortuna.
Anche per queste sue prove, nel 1932 l’artista riceve due incarichi prestigiosi: è chiamato a collaborare alla decorazione del Palazzo delle Corporazioni di Piacentini e all’allestimento della Mostra della Rivoluzione Fascista che si apre in ottobre, nel decennale della marcia su Roma. Per quest’ultima progetta, con lo storico Giuseppe Capodivacca, le sale dedicate alle origini del fascismo. Per l’altra esegue tre enormi affreschi, ciascuno largo quasi otto metri e alto quattro, che hanno per tema il lavoro durante il regime (oggi non più visibili perché coperti negli anni cinquanta con copie di disegni leonardeschi).
Il primo dei tre affreschi, La promessa, raffigura il discorso tenuto da Mussolini il 20 marzo 1919, poco prima della fondazione dei Fasci di Combattimento, agli operai di Dalmine. La figura del capo del fascismo, che parla su un improvvisato podio, è ispirata al Discorso di San Paolo sull’Areopago di Raffaello: una posa ieratica, rafforzata dalla prospettiva multipla e dal colore nero che spicca nel chiarore della composizione. Il pathos della scena è poi aumentato dall’irrompere sulla destra (non si capisce se idealmente o fisicamente) dei soldati della Grande Guerra8.
Il secondo affresco, La realizzazione, mostra il compimento della Promessa ed è impostato su due gruppi di figure, divise secondo un ritmo di sezione aurea da un imponente fascio littorio, che svetta come una colonna. Sulla sinistra, geometricamente ordinata nella luce, compare la schiera dei lavoratori fascisti; sulla destra, in ombra e stretta in uno spazio congestionato, la congerie dei lavoratori prima della marcia su Roma9.
Il terzo affresco, infine, governato da un moto circolare che si irradia in tutta la scena, rappresenta la promulgazione della Carta del Lavoro del 1927.10
Bisogna aggiungere che la stessa enfasi e lo stesso linguaggio insieme veemente e illustrativo ispirano anche molte opere di Carpanetti di soggetto non ideologico. Pensiamo, per esempio, alle Tre semine, esposto alla Quadriennale di Roma del 1935, dove l’artista paragona appunto la semina del contadino alla procreazione (la famigliola sulla sinistra) e al sacrificio di sangue dei Caduti, con effetti da un lato di un ottimismo stereotipato, dall’altro di una tragicità teatrale.
Anche in questi anni Carpanetti interviene attivamente nelle polemiche che coinvolgono il “Novecento”. Nel giugno 1933 in risposta al quotidiano di Farinacci “Regime Fascista”, che aveva attaccato il movimento sarfattiano, difende la modernità di Sironi e compagni dall’incomprensione degli attardati: “A noi sembra che un certo pubblico si addormentò nel 1800 spegnendo il lumino a olio e oggi, svegliandosi, pretende di vivere con la mentalità di allora. Perché non si reca in massa da S.E. Balbo per chiedergli di non attraversare l’Atlantico con gli idrovolanti ma con un tre alberi?”11.
Nel 1935 (lo stesso anno in cui perde la moglie, la pittrice Livia Bencini, che scompare prematuramente a trentotto anni) interviene sulla “Sera” per perorare il ritorno alla pittura murale e un rapporto fra architetti e artisti regolato non da concorsi burocratici ma da affinità di poetica; nel 1936, ancora, sostiene le ragioni dell’affresco come arte destinata al popolo e non ai salotti dei ricchi collezionisti12.
L’artista marchigiano, insomma, condivide la battaglia che Sironi conduce per riportare la pittura alla misura monumentale e, quindi, a una dimensione pubblica, popolare, non mercantile. Collabora in particolare con lui alla Stele del giornale della Rivoluzione (un grande pannello che introduce alla Mostra Nazionale del Dopolavoro, aperta al Circo Massimo dal maggio al settembre 1938), ma soprattutto ne condivide la fede in un fascismo a forte vocazione sociale. Il suo ideale è un’arte epica, capace di cantare l’Italia imperiale. ”Eccoci al vero e doloroso dramma dell’arte nostra. Purtroppo gli eventi gloriosi dell’Impero, che han commosso i più insensibili e refrattari, non hanno trovato nell’artista il loro esaltatore” scrive13.
Quanto a lui, non gli mancano temi “esaltatori”. È probabilmente sua, più che di Sironi, l’idea (avanzata in un promemoria del 1938, firmato da entrambi e inviato a Vittorio Cini) di costruire all’EUR un “palazzo delle battaglie e delle vittorie” che illustri le conquiste militari italiane dalla fondazione di Roma alla fondazione dell’Impero14. Sironi infatti non dipinge praticamente mai scene di combattimenti, mentre Carpanetti esegue nel 1940 un colossale affresco, intitolato proprio Scena di battaglia, per la sede del gruppo rionale fascista “Crespi” in corso Sempione a Milano (distrutto dopo la caduta del regime).
Nello stesso periodo progetta anche un affresco per la sala del Duce, il “Sacrario”, nel Palazzo del Popolo d’Italia costruito da Muzio. Sembra di dedurre che volesse realizzare “una sola grande composizione tipo Seicento, San Luigi dei Francesi ecc.”, come scrive Sironi a Muzio. Sironi però temeva gli esiti del barocchismo dell’amico e avrebbe voluto eseguirlo lui, in forme molto diverse (“Vorrei fregare quell’affresco a Carpanetti” confessa sempre a Muzio). La guerra si incaricherà di bloccare il progetto15.
Eppure l’artista marchigiano non dipinge solo opere celebrative. Nel 1934, per fare qualche esempio, espone alla Biennale di Venezia i nudi immobili e classici delle Bagnanti: un tema, quello del corpo femminile, che è fra i suoi più ricorrenti. Acquista anche una buona fama come ritrattista e fissa nelle tele la bellezza di Paola Borboni, 1930, riprendendo con accenti sensuali gli effetti di vesti trasparenti del Pontormo; dipinge il volitivo Giulio Barella per la Biennale di Venezia del 1936; ritrae l’impacciato Secondo Galtrucco, 1930, e il sornione Rosario Romeo, 1940, per la Quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano. E non solo. Nella seconda metà del decennio si dedica a composizioni meno affollate e complesse di quelle precedenti, dove la sua troppo eloquente gestualità si diluisce meglio nello spazio. Nell’affresco I due ladri, che realizza nel 1939 per il Palazzo di Giustizia costruito da Piacentini, illustra un concetto ciceroniano (Per sola la virtù della Giustizia gli uomini hanno il nome di buoni) attraverso la rappresentazione di due malviventi che restituiscono il maltolto non per un moto spontaneo di onestà, ma per il timore della Giustizia e dello Stato. È vero che la figura al centro sembrerebbe eseguire un saluto romano, ma l’inclinazione laterale del braccio, disegnato così per ragioni euritmiche, e la mancanza di qualsiasi altro simbolo fascista rendono poco evidente il motivo.
Nel contemporaneo Omaggio agli archi e alle colonne, un affresco esposto alla Quadriennale di Roma del 1939, immagina invece due giovani in una fantasmagoria di capitelli, colonne, archi di trionfo, pavimenti classici, come in un ideale omaggio alla pittura murale. Anche in questo lavoro lo spazio si dilata in una prospettiva molteplice, con un effetto però di spaesamento che lo rende uno dei suoi esiti migliori.
Carpanetti dipinge infine nature morte e una serie di paesaggi, a cui tornerà a dedicarsi nel dopoguerra. Il suo repertorio, insomma, spazia tra molti temi. Eppure il suo nome resta sempre legato alla celebrazione del fascismo. Il processo di epurazione a cui viene sottoposto nel giugno 1945 (con Sironi, Pratelli, Vellani Marchi, Carrà e altri), e da cui esce con una pesante condanna, non fa che rimarcare questa dimensione del suo lavoro. Che, invece, non è l’unica.
NOTE
1⇑M. Sironi, La II Mostra del Sindacato… ora in Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca, Milano 1980, p. 46. Analogamente Carrà, dopo aver lodato “l’espressione” del Ratto delle Sabine, ma aver trovato “qualche non lieve discordanza” nel colore e nella stesura, osserva che l’opera “ha diritto a molta considerazione, vuoi per la fattura larga e scorrevole, vuoi per le difficoltà in parte vittoriosamente superate” (C. Carrà, Mostra del Sindacato Lombardo, “L’Ambrosiano”, 26 novembre 1929). Altrettanto lusinghiero è il giudizio di Giolli: ”È indubbiamente un quadro potente, e Arnaldo Carpanetti che l’ha dipinto si è subito imposto al pubblico e alla critica, fin dal primo giorno della mostra[…] Neppur questo quadro, s’intende, è pienamente risolto, […], ma qui senti che il pittore, davanti alla grande tela e alla folla dei nudi, non ci si è messo soltanto d’impegno, ma con un fremito” (R. Giolli, Cronache milanesi, “Emporium”, vol. LXX, n.420, dicembre 1929, p.373). Curiosamente Costantini vede invece nel Ratto un trionfo di erotismo carnale e conclude: ”Grandi difficoltà ha affrontato il Carpanetti e ciò dimostra che egli possiede sicure qualità che fra non molto daranno buoni frutti”(V. Costantini, La II Mostra del Sindacato Lombardo, “L’Italia Letteraria”, 24 novembre 1929, p. 4)
2⇑M. Sironi a Carpanetti (1937), in Id., Lettere, a cura di Elena Pontiggia, Milano 2007, p. 54. Carpanetti, si deduce dalla lettera, si era lamentato di un’ingiustizia subita e del mancato aiuto dell’amico. Il motivo delle recriminazioni potrebbe riguardare l’Expo Universale di Parigi del 1937, a cui comunque l’artista partecipa – forse grazie all’appoggio di Sironi – con un’opera sulla Carta del Lavoro.
3⇑M. Sarfatti, Storia della pittura moderna, Roma 1930, p. 130.
4⇑Si veda: “Incipit novus ordo”, ASAC, Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Fondazione La Biennale di Venezia, busta 57, con le dichiarazioni dell’artista.
5⇑Torriano su “Casa Bella” nota: ”Quegli che si avventa sull’ippogrifo della fantasia è ancora Arnaldo Carpanetti, e con quell’impeto che gli conosciamo. Vi sono molti difetti e squilibri di composizione in questo Incipit novus ordo, ma vi è pure non so che furia selvatica, non so che ardore, quasi mistico e medioevaleggiante, che riesce pieno d’originalità” (P. Torriano, “Casa Bella”, n. 30, giugno 1930, p. 68). Nebbia critica la frammentarietà della composizione che “si disperde e distrae in elementi descrittivi che rasentano l’aneddoto”, ma poi ne apprezza il “fermento vitale”( U. Nebbia, La XVII Biennale di Venezia, “Emporium”, vol. LXXI, n. 425, p. 274). Bonardi ne elogia senza riserve la “possente composizione” e il “pensiero molto lucido e preciso” (D. Bonardi, La magnifica affermazione dell’arte italiana, “La Sera”, 8 maggio 1930).
6⇑L’opera, scrive Margherita Sarfatti, “per l’armonia dell’insieme e per le singole figure più vigorosamente caratterizzate, più individuali uomini e meno comparse, appare migliore dell’altro vasto quadro del Carpanetti, che a Venezia ebbe un premio. Forse sarebbe bene che il giovane artista approfondisse maggiormente la sua arte, attraverso opere di minor mole e minor effetto, per giungere al magno quadro storico con matura preparazione. Tuttavia dà motivo a un respiro di sollievo e di soddisfazione un giovane, il quale reagisca oggi alla mania del frammento e del microcosmo[…] Almeno Carpanetti ci dà motivo di pensare a qualcosa, che non è solo la sua tecnica” (M. Sarfatti, I pittori alla Quadriennale di Roma, “La Nuova Antologia”, 16 febbraio 1931, p. 6-7). Sulla stessa linea e ancora più elogiativo per il “coraggio di affrontare gli inconvenienti della composizione” è Pier Maria Bardi (La scuola di Milano alla prima Quadriennale, ”Rassegna dell’Istruzione Artistica”, febbraio 1931, p. 38).
7⇑N. Bertocchi, La prima Quadriennale romana, “L’Italia Letteraria”, 18 gennaio 1931.
8⇑Si veda: Franco Borsi, Gabriele Morolli, Daniela Fonti, Il Palazzo dell’industria, Roma 1986. Nelle cartoline diffuse all’epoca la riproduzione degli affreschi era corredata da tre didascalie, in linea con lo stile di Carpanetti, se non dettate da lui. Nella prima leggiamo: “LA PROMESSA. Agli operai di Dalmine che il XIX marzo MCMXIX avevano issato sul pennone del loro stabilimento la bandiera tricolore, nel drammatico periodo in cui si tentava di deviare le coscienze dei lavoratori dal concetto di patria, Benito Mussolini rivolse il profetico discorso col quale poneva le basi dello Stato Corporativo : “Voi giungerete in un tempo che non so se vicino o lontano, ad esercitare funzioni essenziali nella società moderna … È il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi, nella patria libera e grande entro ed oltre i confini…”.
9⇑Leggiamo nella didascalia della cartolina: “LA REALIZZAZIONE. Dopo l’azione di snidamento e di convincimento compiuta dal fascismo verso il lavoratore si avvera la promessa di Benito Mussolini, la bandiera ed il gagliardetto garriscono dalla potente “gru” in una nuova luce. I lavoratori, nella via segnata dai Fasci, marciano inquadrati, dedicando con rinnovata coscienza e giusto orgoglio il loro lavoro alla patria”.
10⇑Questa la didascalia della cartolina: “LA CARTA DEL LAVORO. Da un torrione centrale, che nella sua granitica costituzione simboleggia l’intangibile unità della patria, partono a raggera inquadrate le forze produttrici e le organizzazioni assistenziali che traggono vita dal concetto di nazione, e che nel loro insieme contribuiscono a crearla.”
11⇑A. Carpanetti, Fronte unico, “Il Regime Fascista”, 16 giugno 1933. All’articolo risponde immediatamente Farinacci che, su “Regime Fascista”, si scaglia sui “rancidi prodotti del cosiddetto modernismo”: “Non creda il pittore Carpanetti che qualcuno lo prenda sul serio […] Altro, o bellicoso Carpanetti, che pretendere[…] di imporre un troppo interessato bavaglio alla critica” (Fronte, corbezzoli!, unico”, “Regime Fascista”, 20 giugno 1933, ora in Rossana Bossaglia, Il “Novecento italiano”, Milano 1979, p. 154).
12⇑A. Carpanetti, Mali e rimedi dei concorsi nazionali, “La Sera”, 5 luglio 1935; Id., L’arte per il popolo, ”Il Secolo”, 12 dicembre 1936.
13⇑A. Carpanetti, L’arte per il popolo (nota precedente). Sulla collaborazione con Sironi: Sironi. La Grande Decorazione, a cura di A. Sironi, Milano 2004.
14⇑Della proposta parla Vittorio Cini in una lettera del 4 giugno 1938 a Sebastiani, segretario particolare di Mussolini (Archivio Centrale di Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio ordinario, b. 12668, f. 509831/1). Un ampio stralcio della lettera è in Tina Viquel, Duxergosum, Napoli 2016, p. 55.
15⇑M. Sironi, lettera a G. Muzio, 1940 c., ora in Mario Sironi. Scritti editi e inediti, cit., p. 309-310.
Puntuale e attenta visitazione della vita artistica, delle opere, delle frequentazioni e delle collaborazioni di Carpanetti : artista (non) illustre che testimonia una poliedricità tematica che non sempre gli è stata riconosciuta.
La proposta di vite d’artisti (non) illustri ha il merito di mantenere viva una memoria culturale, di nicchia, che altrimenti andrebbe perduta.
Grazie dell’attenzione. L’intento delle vite (non) illustri è quello che ha colto.