“Short-circuits“, la mostra che Pirelli HangarBicocca dedica all’artista cinese Chen Zhen (a cura di Vicente Todolì), può essere intesa come un grande campo di forza che ha il suo punto d’equilibrio teorico nell’uomo. Da questo punto centrale si sviluppano quelle forze che, ora sbilanciandosi verso l’aspetto fisico-biologico, ora, invece, tendendo ad occupare con maggior evidenza l’ambito sociale e relazionale, impregnano tutte le sue opere. È in questo immaginario campo che possiamo collocare i lavori di questa retrospettiva degli ultimi dieci anni di vita dell’artista: la ricerca artistica qui presentata è datata, infatti, dal 1991 al 2000, anno della morte dell’artista, avvenuta a Parigi nel 2000 (era nato a Shanghai nel 1955); uno dei primissimi artisti ad uscire dal suo paese d’origine per stabilirsi, alla metà degli anni Ottanta, a Parigi.
Il gran ricorso che l’artista fa di letti, pitali, sedie e altri oggetti d’uso quotidiano indica una grande attenzione per l’aspetto biologico dell’essere umano (talvolta chiamato in causa esplicitamente come in Crystal Landscape of Inner Body (Serpent), 2000 dove sono riprodotti in cristallo alcuni organi interni del corpo umano), altre volte invece richiamato in modo più mediato: è il caso di La Voie du Sommeil – Sleeping Tao, 1992, un’installazione che riproduce tre letti tradizionali della Cina del nord ambientati in paesaggi di rifiuti; altre volte la massa delle opere piega lo spazio concettuale per sottolineare le implicazioni sociali e relazionali dell’uomo (My Diary in a Shaker Village, 1996 o Round Table, 1995); altre volte ancora è la cura del proprio sé che fa capolino (Le Produit naturel/Le Produit artificiel, 1991 o Le Chemin / Le Radeau de l’écriture, 1991).
Il titolo della mostra esplicita il concetto di base del lavoro di Chen Zhen, dopo il trasferimento a Parigi: il comporre, nella medesima opera, oggetti ed idee in apparenza contraddittorie. È un concetto che l’artista talvolta impiega in modo didattico, come in Round Table: in un tavolo cinese rotondo, da pranzo conviviale, sul quale sono incise parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sono incastrate sedute provenienti da tutto il mondo, a parlare di fratellanza e tolleranza universale; altre volte invece in maniera più sofisticata (in Daily Incantations la contrapposizione vecchio/nuovo, tradizione/cambiamento è espressa in modo più ambiguo).
Al servizio di questa riflessione sulla condizione umana nel momento della globalizzazione e dell’incontro di culture, Chen Zhen pone una poetica dell’oggetto che trova i suoi prodromi nella celebre intuizione duchampiana del ready-made e nell’object trouvé di memoria surrealista, rivista secondo una propria e autobiografica angolazione (infatti, i più significativi di questi oggetti provengono dalla cultura tradizionale cinese: pur decontestualizzati, essi continuano a raccontare la loro storia e dell’identità dell’artista, non senza opacità per uno spettatore estraneo a questo milieu culturale). L’artista riusa oggetti comuni assemblandoli in opere di spiccata compostezza formale. Daily Incantations, 1996, ad esempio, è una struttura lignea che sorregge vasi da notte cinesi, il cui ritmo ordinato è alterato da una grande sfera metallica contenente cavi e dispositivi elettrici. Qui l’impiego concettuale e quello plastico degli elementi si fa evidente. Da una parte si dovrebbe generare, nelle intenzioni dell’artista, un cortocircuito tra l’idea del mondo vecchio destinato alla sparizione (i pitali) e i dispositivi elettrici, emblemi dell’avanzante modernità, imprigionati nella sfera (s’intreccia, inoltre, a questa tematica la riflessione sull’oggetto di scarto, frutto della moderna produzione industriale). Dall’altra parte, l’aspetto formale dell’opera presenta una sua eleganza: i pitali ordinati in teorie su più livelli generano all’occhio una ritmo rapido, squillante, puntuale che viene interrotto e variato dalla massa greve e sorda della grande sfera metallica.
La tematica della produzione industriale, presente anche in altre opere esposte, è sviluppata esplicitamente in Éruption future, 1992, attraverso una messa in scena della “«dismissione» di un oggetto” come “parte integrante del ciclo continuo di nascita, esperienza e morte”.
Un lavoro di spiccata eleganza formale è Crystal Gazing, 1999: sfere di abaco e grani di rosario buddista, ora scure ora chiare, costituiscono una grande sagoma di goccia sospesa ad un’impalcatura di legno, al centro della “goccia” una sfera di cristallo, riempita di soluzione fisiologica; si instaura un delicato gioco tra la materialità opaca della “goccia” e la luccicante trasparenza del cuore cristallino che, leggiamo in catalogo, fa “emergere la natura dei due aspetti antagonisti e complementari dell’esistenza: quella materiale e quella spirituale.” Inoltre richiama l’idea di fragilità, già incontrata in Crystal Landscape of Inner Body (Serpent), e della cura (in altre opere si fa riferimento alla pratica dell’agopuntura), aspetti, questi, strettamente legati alla tematica del corpo.
Non mancano esplicite prese di posizione sull’attuale condizione umana: The Voice of Migrators, 1995, fin dal titolo, è un monumento che dà voce agli atti migratori che, sempre esistiti, assumono nel mondo connesso e tecnologico contemporaneo una non occultabile evidenza, non priva di drammaticità. Oppure Le Bureau de change, 1996/2004: un ufficio di cambio valuta riprodotto nella foggia di un bagno pubblico. Ognuno può sbizzarrirsi nella sua propria interpretazione… Ancora Prayer Wheel – Money Makes the Mare Go, 1997, in cui all’interno di un guscio di carta dalla forma vagamente ad igloo una “ruota di preghiera” buddista (un grande cilindro verticale) incastona abachi e calcolatrici, metafora del capitalismo divenuto “religione globale”.
Prayer Wheel – Money makes the Mare to go, 1997 dettaglio
Non è assente la sfera più propriamente autobiografica: figlio di medici e gravato da una malattia autoimmune, nei lavori di Chen Zhen si manifesta la dimensione curativa, del riposo, arrivando a riflettere sull’Obsession de longévité, con un’opera del 1995, retrospettivamente dal sapore agro e preconizzante.
Le Chemin / Le Radeau de l’écriture, 1999 Le Produit naturel / Le Produit artificiel, 1991
La cura del sé e la riflessione sulla propria persona, tematiche liminari rispetto a quelle più esplicitamente considerate dall’artista, sono innescate da alcune opere opere tra cui Le Chemin / Le Radeau de l’écriture, 1991: traversine ferroviarie con incisi ideogrammi comprimono pile di giornali e libri, come ad affermare che la cultura è la base di ogni cammino, sociale o individuale, che porti ad un incontro; ma anche che la cultura sulla quale edifichiamo il nostro cammino è una zattera che rischia di rimanere in balìa del mare delle diversità. E poi, c’è Le Produit naturel / Le Produit artificiel, 1991: una struttura metallica verticale sostiene su un lato finte rose, i cui gambi affondano in due metri cubi di sterco (visibile sul lato opposto). L’opera non è solo una messa in scena di un possibile “incontro tra materiali naturali e oggetti trovati” nel tentativo di dare vita ad un cortocircuito tra la bellezza dei fiori e l’artificialità del materiale di cui sono fatti. Infatti, la presenza di due specchi (uno dal lato delle rose e un secondo sul lato dello sterco) non può non spingere alla riflessione sulla dualità della natura di ciascuno di noi: rosa e sterco, produzione naturale e artificiale, natura e artificio… L’ambiguità dell’opera si consuma tutta nei pochi passi che servono per passare da un lato all’altro.
Ma l’opera che riassume meglio di tutte la poetica dell’artista è quella posta in apertura di percorso: Jue Chang, Dancing Body – Drumming Mind (The Last Song), 2000. Una grande installazione composta da letti, sedie, sgabelli raccattati in luoghi e contesti differenti, rivestiti di pelle bovina, tesa come la membrana di un tamburo, e sospesi su strutture lignee massicce. In questa installazione sonora si possono rinvenire i tre momenti che articolano il concetto di “transesperienza” (neologismo coniato dall’artista che indica l’insieme delle esperienze vissute quando si lascia la patria): la residenza, cioè l’entrare in relazione con il luogo ospitante; la risonanza, vale a dire lo sforzo necessario per trovare una sintonia con questa nuova voce; ed infine, la resistenza che le proprie abitudini e la propria cultura oppongono a questo rapporto. Il primo momento è evocato dalla foggia degli oggetti inglobati nell’opera che provengono da varie parti del mondo; la seconda è simboleggiata dal lavoro che armonizza tutti gli oggetti in un’unica opera di rimarchevole ricercatezza; il terzo momento, quello della resistenza, s’incarna invece nei corpi, siano essi quelli degli spettatori o quelli di eventuali danzatori, che interagiscono con l’installazione tamburellando o accarezzando le pelli tese. Superando l’inerzia dei nostri corpi, ciascuno si trova così confrontato con quest’esperienza “migrante”, di passaggio da un oggetto all’altro, da una struttura ad un’altra.
Quest’opera è fin dal titolo il capolavoro presente in mostra, l’opera conclusiva, il «canto del cigno» (questa versione data all’anno della scomparsa) di una ricerca innescata dal trasferimento a Parigi, dall’incontro con la cultura occidentale che portarono l’artista ad abbandonare la pittura per scegliere un’altra strada segnata dalla resistenza di un corpo cinese (corpo fisiologico, certo, ma anche ente culturale, come tutti i corpi umani sono) agli echi di quella dimensione socio-culturale che risiede in occidente.
Pirelli HangarBicocca, via Chiese 2, Milano ¦ 15 ottobre 2020 – 21 febbraio 2021
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