Pochi artisti hanno saputo concentrare tanta vitalità nella levità di un tratto o nell’evanescenza di un colore. Di questi Paul Klee è stato il principe. Oggi, 29 giugno, ricorre l’ottantesimo anniversario della morte di questo artista “provinciale” (come volle definirlo Greenberg) avvenuta a Muralto, non ancora compiuti i sessantuno anni (era nato nei pressi di Berna nel 1879).
Artisticamente nato espressionista e “linearista”, non abbandonò la linea neppure quando il demone africano del colore lo colse, alla vigilia del primo conflitto mondiale, per cui è celebre la citazione dai suoi diari: “Il colore mi possiede… io ed il colore siamo tutt’uno. Sono pittore!”. Il pittore impara, dal viaggio in Tunisia (nell’aprile del 1914 in compagnia di Macke e Moilliet), che il colore sulla tela può trasfigurare forme ed oggetti della realtà fino a dare vita ad altre forme ed altri oggetti che sono puro ritmo e pura poesia, d’altronde “L’arte è una similitudine della creazione.” Capolavori del periodo sono ad esempio Cupole rosse e bianche, 1914, in cui da movimenti astratti e cromatismi caldi emergono ancora riconoscibili richiami figurativi; oppure Vento caldo nel giardino di Marc, 1915, in cui, non cancellata dalle colorate campiture geometriche che conferiscono all’opera sottili e liriche piattezze, resiste ancora un accenno di prospettiva. La ricerca che il pittore svizzero portò avanti sull’astrazione non lo conduce ad abbandonare il dato di natura che anzi permane (anche solo nel titolo) e costituisce un ulteriore segno della poetica di Klee. Mai, infatti, volle volgere le spalle alla realtà, ma di questa si servì come modello per creare il proprio mondo. Un mondo debitore della lezione del Cubismo (che conobbe nel 1912, in seguito ad un viaggio parigino) che gli consegnò quella disciplina plastica capace di spezzare fondo e figure, appiattendo queste ultime sul primo attraverso la riduzione di forme ed oggetti a giustapposizioni geometriche. Certo, lo spazio che Klee costruisce è meno aggressivo e discontinuo di quello di Picasso, è più sfumato, tenue, poetico.
I suoi quadri vivono animati da una sottile vibrazione che linee tremolanti e colori dilavati concorrono in egual misura ad attivare. Ed è proprio da questo movimento, oscillante e vibrante, sottile e delicato come ali di farfalla, in precario equilibrio, pronto a disintegrarsi se solo uno di queste componenti perde il nesso con gli altri, che emerge quella vitalità cui si fa cenno all’inizio e soprattutto quella bellezza che impressiona per la sua, almeno apparente, fragilità; una bellezza che corre sul filo della decorazione senza banalizzarsi nell’ornamento, senza scadere nella caricatura.
Caratteristiche che andranno perdendosi nell’ultima produzione del Nostro, quella della seconda metà degli anni Trenta in cui la linea, che prima è “antimonumentale” e sottile, si fa spessa, corposa; abbandona l’allusione per la costruzione; i colori si intensificano per farsi sgargianti. Le opere sfumano, quasi fino a perderla, la precedente connotazione paradigmatico-simbolica, per rendere, ad esempio, sia uno Sguardo dal rosso, sia uno Spirito di una lettera (entrambi del 1937), segni essenziali, architettonici, bloccati in un spazio dal quale il movimento è bandito.
Ci voleva il ricordo di questo artista, dalle linee oniriche e dai colori affascinanti!