La mostra sembra rappresentare un momento di pausa, soprattutto per Rebecca Ackroyd, nata a Cheltenham nel Regno unito trentadue anni fa, quasi per ritemprarsi dalla gravosità delle sue più usuali installazioni scultoree, una presa di salutare distanza, un respiro da quelle figure finte e tormentate che si caricando significati esistenziali complessi e travagliati. L’artista pare aver voluto tornare alla quiete domestica, proponendo –sub specie artis– l’interno di un appartamento borghese dell’Inghilterra anni Settanta; non uno qualsiasi, ma quello che fu dei suoi genitori (presenti alla serata inaugurale). All’interno di una serra (metafora evidente del luogo protetto e controllato in cui si cresce e ci si sviluppa) sono proposti, in maniera essenziale, direi in modo sineddotico, tramite la realizzazione di calchi in resina che danno vita a gusci traslucidi e diafanamente colorati, alcuni ambienti domestici: il locale televisione con due poltroncine affiancate dalle quali due mani si stringono (l’opera più poetica dell’intera installazione), affacciate su un televisore che proietta immagini di un ragno bianco intento a tessere la sua tela; si passa poi in cucina, riproposta dal calco di una stufa a gas con pentolino in cera, sotto la quale giacciono, su un ripiano, i calchi di porzione delle gambe della sorella e del nipote (ci si potrebbe chiedere perché siano esposti in questo modo: si potrebbe pensare o alla cucina di un cannibale -metaforicamente l’invadenza della famiglia- o ad un richiamo della cucina come luogo di vita intima, di accudimento, di nutrimento {madre-figlio}); si procede poi in un salottino per la lettura e il ricevimento degli ospiti (almeno così parrebbe di poter dedurre dalla presenza di un porta-riviste, di un sofà su cui siedono un paio di gambe femminili con bicchiere e il calco di mani che scrivono); poi una zona più intima: un divanetto sul quale le gambe, questa volta, sono sdraiate; ed infine, l’ambiente più enigmatico dell’intera installazione perché pare di essere usciti dall’appartamento, trovandosi davanti ad un lampione ed ad un altro paio di gambe (quelle dell’artista) infilate in un paio di stivali.
Osservando l’installazione, dopo un primo momento di smarrimento causato dalla vista di queste porzioni di corpi ed oggetti smembrati e dissecati, ci si ritrova rassicurati sia per via dell’aria di distanza che il bianco (tono dominante dell’intera opera) trasmette sia, al contrario, per quell’atmosfera di serena intimità che pervade l’insieme. Non si sfugge tuttavia ad una precarietà che il tutto emana: la traslucenza, gli oggetti e i corpi incompleti (o forse, memorie di corpi) che fascette autostringenti assemblano e tengono insieme sembrano parlarci di un’esistenza precaria e malsicura anche tra le mura domestiche. Le porzioni anatomiche sfrangiate paiono, a loro volta, alludere alla notoria perdita di certezza di un ‘io’ lacerato in un epoca di individualità e solitudine sociale. Anche il focolare domestico può essere non solo nido -serra entro il quale credere protetti e vigorosi- ma anche gabbia, prigione che intrappola, che impedisce il dispiegarsi delle potenzialità del singolo, soffocato da un ambiente familiare troppo presente: la tela è ‘abitazione’ per il ragno, ma trappola mortale per gli altri insetti. E forse, proprio a questa necessità di uscire/sfuggire dalla casa per aprirsi al mondo di fuori allude il lampione alla fine dell’installazione. È a questo punto che, voltandosi per riguadagnare l’uscita, l’occhio individua là, nel locale televisione, le due poltroncine e le due mani teneramente intrecciate, anche la TV, ma non il ragno e la sua tela. Il pensiero cambia: si è usciti dalla casa paterna, si è divenuti esperti del mondo e così la casa d’infanzia è divenuta di nuovo rifugio, vero ristoro dalla battaglia con il non-famigliare. Facile immaginarsi il sorriso tranquillizzante e buono dei genitori, ormai anziani, che ci accoglie come quando siamo venuti al mondo. Si può con pacata serenità, tornare a vedere la televisione con loro.
Tutta l’opera nasce da una conversazione (unico testo presente in catalogo) che la Ackroyd ha avuto con la madre (tutta l’opera è un omaggio alla figura materna: le gambe sono gambe femminili, gli oggetti “di scena” -scarpe, stivali…- sono della madre, anche la serra, antro nel quale si è accolti per poi uscirne ha un richiamo materno) nella quale si narra di un periodo della vita di famiglia precedente la nascita dell’artista stessa.
Quest’opera parla anche del succedersi delle generazioni, un aspetto quanto mai banale e quotidiano: nonni, nipoti, genitori, qualche bisnonno, tutti insieme ma distanti. Colpisce che questo ambiente, di fatto la ricostruzione di un luogo quasi mitico per Rebecca in quanto precedente la sua stessa nascita, personalmente non ricordato dall’artista ma costruito sulla base delle testimonianze della madre, sia, invece, per alcuni visitatori un passato poco più che prossimo e ben rammemorato.
Sono dunque le parole della madre a dare giustificazione, ad esempio, ai colori delle resine (che testimoniano le stanze colorate dell’appartamento che fu dei genitori) o alla presenza di un drappo (uno strofinaccio?) a stampe fiorate, scampolo di tessuti in voga all’epoca e del power flower.
L’installazione è introspettiva, molto intima -certi riferimenti sono recuperabili solo facendo riferimento alla storia personale dell’artista. Questa estrema intimità è la forza e la debolezza dell’opera perché la rende distante, non facilmente accessibile, ostacola, in fondo, un’adesione emotiva piena e partecipata, ne indebolisce la comunicabilità; e rende il lavoro onesto, ma non coinvolgente. Freddezza che prende la forma visibile, come già accennato, nelle tralucenze pallide, nel telo e nella moquette bianchi che rivestono la serra e il pavimento ed è sancita dall’obbligo imposto al visitatore di usare copriscarpe da laboratorio per accedere all’installazione, per preservare il candore del tappeto…
Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano – 4 dicembre 2019 ¦ 31 gennaio 2020
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